LA SINISTRA E L’ITALIA – STORIA DI UN AMORE MAI NATO

Un tempo, ai suoi albori idealistici, la sinistra era portavoce di quelle istanze che, ad un’analisisemplicistica, potevano essere riassunte come la lotta dei poveri contro i ricchi o degli operai contro i padroni;  rappresentava la paladina politica dell’eterna lotta che vede coinvolti i buoni contro i cattivi.

Oggi, a pochi giorni dalle amministrative del 10 giugno, le considerazioni politiche circa la disastrosa sconfitta del PD, partito che ha rappresentato gran parte dell’universo della sinistra in Italia negli ultimi 10 anni, potrebbero essere numerose .

Al di là delle storiche roccaforti perdute o in fase di assedio (vedi su tutti il ballottaggio di Siena), e al di là delle folli politiche di governo che sono durate quasi un lustro, la disamina circa il tracollo della sinistra in Italia, potrebbe partire da molto lontano, e per l’esattezza si potrebbe far risalire addirittura agli inizi del secolo ventesimo.

Prendo spunto dalle parole di Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista Italiano il quale vede la responsabilità del tracollo elettorale della sinistra nazionale,nel solito mantra che ci accompagna ormai da qualche anno :“la sinistra è uscita dalle fabbriche, la sinistra ha abbandonato la povera gente, la sinistrasi è imborghesita”.

Ma siamo davvero così sicuri che la sinistra  sia mai entrata dentro alle fabbriche? E siamo sempre così sicuri che i suoi esponenti si siano imborghesiti solo di recente?

Per rispondere con chiarezza a questi interrogativi dovremmo partire dal 1906, quando il partito socialista italiano, nonostante fosse nato relativamente tardi, ovvero nel 1892, contava già più di 1.150 organizzazioni locali e più di 36.000 iscritti. Un numero quantomai significativo se teniamo in considerazione sia il numero di abitanti della penisola sia i cittadini che potevano partecipare attivamente alla vita politica della Nazione.

Alla vigilia della prima guerra mondiale, nel 1913 il numero degli iscritti era salito a 47.000, e nelle elezioni politiche del 1919 presero più del 32% delle preferenze, raggiungendo quasi 1.800.000 di voti e 152 deputati.

Così la sinistra italiana se pur in ritardo rispetto agli altri paesi europei industrializzati ed economicamente avanzati, in poco più di un ventennio, aveva posto delle solide basi politiche all’interno del paese.

Ma da chi dirigeva questo enorme movimento che si era appena costituito? Secondo un indagine del 1906 tra i membri del partito, risultò che il 42% erano operai, il 3% impiegati, il 15% artigiani e piccoli commercianti, il 21% coltivatori diretti e lavoratori della terra, circa il 5% imprenditori, proprietari terrieri e il rimanente 4%  studenti, liberi professionisti, intellettuali, ecc…

Nonostante però la base del movimento fosse costituita nelle fabbriche e nelle campagne,Robert Michels ( sociologo e politologo tedesco naturalizzato italiano) ci ricorda nel suo “Il proletariato e la borghesia nel movimento socialista italiano” che il socialismo italiano era permeato di intellettualismo e di accademia, poiché la direzione di quel 42% che costituiva la base del partito socialista italiano, era saldamente nelle mani di avvocati, professori e piccoli borghesi.Infatti, dei 32 deputati socialisti eletti nel 1900, quasi la metà erano costituiti da 9 professori universitari e 10 piccoli proprietari terrieri.

Quanto appena detto appare più evidente nelle già citate elezioni del 1919, sui 152 deputati eletti ben 77 erano liberi professionisti e intellettuali, di cui 47 avvocati e 8 professori universitari, mentre la base della vera ideologia di sinistra, ovvero quella che doveva combattere i padroni, era rappresentata solamente da 7 contadini e 10 operai, riducendo notevolmente le istanze che i lavoratori speravano venissero portate in parlamento.

Pure il giornalista e scrittore russo, Michail Ossoring che partecipò ai moti del 1905 a Mosca e che visse all’estero lavorando come corrispondente per periodici russi, quando si trovò in Italia rimase colpito dal poco agire della sinistra italiana in favore dei lavoratori, tanto da scrivere nel suo “Profilo dell’Italia oggi” (pp. 74-75)<<Sono davvero pochi quelli che si occupano con entusiasmo e dedizione della difesa degli interessi dei lavoratori. La stragrande maggioranza pensa soltanto agli affari da sbrigare nelle ore libere, e tutto il suo contributo, dato del resto malvolentieri, consiste nell’aiutare piccoli gruppi di lavoratori. Perciò è un’impresa difficile, in Italia, trovare qualche agitatore di idee larghe e di condotta seria che si dedichi a queste cose con impegno, in modo disinteressato, senza ambizioni parlamentari>>.

Quindi il partito socialista, nonostante la sua enorme influenza, non poteva essere nè per i suoi principi nè per la formazione dei suoi dirigenti l’organizzazione capace di porsi alla testa delle masse e guidarle a una conclusione decisiva. Come si è appena visto quasi tutti i suoi quadri maggiori provenivano dalla piccola borghesia o dalla cultura borghese.

Nei confronti dello stesso Filippo Turati, che era stato uno dei fondatori del partito e figura autorevole di esso, Lenin nel 1905 esprimeva un giudizio non certo lusinghiero, definendolo l’Alexandr Millerand italiano. Inoltre negli anni di massima prosperità, quelli risalenti alla prima decade del XX secolo, il partito socialista italiano non poteva annoverare tra le sue file “Nessun marxista autentico ma molti opportunisti come Schippel e Bernstain”(Lenin, opere vol XV p. 59), come si preoccupò di sottolineare nel 1911 nuovamente Lenin a Gorki che allora soggiornava in Italia.

Quanto appena detto risulta  così attuale che i paragoni potrebbero essere molteplici, proprio per questo l’attenzione circa le batoste elettorali prese dal PD, non si dovrebbero soffermare ad una politica più o meno recente attuata dal partito, ma in generale si dovrebbero rifondare quelle origini lontane che se pur perse nel tempo rimangono attuali. La lotta per il controllo del direttorio è sempre stata un affare chiuso alle élite che, allora come ora, si fanno portavoce di istanze quanto mai lontane da coloro che millantano di volere rappresentare.

La serie di sconfitte in ogni competizione elettorale, siano esse politiche, amministrative o regionali, a cui la sinistra ci ha abituato negli ultimi anni, non vanno imputate ad un improbabile cambio di volto dell’elettorato che da moderato si è trasformato in populista, ma vanno addebitate a quella scarsa volontà, che storicamente la contraddistingue, di non dare voce alle istanze dei propri elettori.

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